Per un capello fuori posto

Donne che si tagliano i capelli in atto di sacrificio solidale; schiere di manifestanti che marciano compatte, sventolando le bandiere dell’Impero Pahlavi; immagini di ragazze giovanissime e sorridenti sfilano attraverso cortei, collettivi organizzati, testate giornalistiche. La domanda che ci si pone resta una sola: “Che cosa sta succedendo in Iran?”

Sette mandati presidenziali hanno visto numerosi sconvolgimenti caratterizzare la vita quotidiana, nonché professionale, del popolo iraniano. Neanche lo slancio progressista di Hassan Rouhani, difensore della diplomazia e del rinnovamento istituzionale, ha impedito che il Paese incontrasse un periodo di sentita crisi. Sconfitto alle elezioni del 2021, il suo posto è tuttora ricoperto da Ebrahim Raisi, considerato un ultraconservatore tradizionalista. Il mandato di Rouhani era stato attraversato da numerose controversie, legate soprattutto all’inefficienza della classe dirigente nel fronteggiare corruzione, sostenibilità dei prezzi, libertà di stampa e rispetto dei diritti umani. Ma sin dalla salita al potere di Raisi, il 3 agosto dello scorso anno, diffidenza, ostentazione dell’autorità, estremismo religioso e interventi militari contro manifestanti si sono accentuati.

Tuttavia, il 16 settembre, si sono raggiunti i picchi dell’assurdo.

In Occidente, e non solo, si sono propagate informazioni circa il brutale decesso di una giovane ventiduenne di etnia curda,  Mahsa Amini. All’arrivo difficoltoso dell’ambulanza all’Ospedale 

di Kasra, sono state rilevate numerose fratture craniche, oltre a lividi su testa, collo, guance e gambe del corpo della ragazza. 

Attraverso le testimonianze dei familiari della ragazza, delle altre donne identificate come “sospette”, che smentiscono attivamente le false documentazioni del Governo iraniano, lo 

sgomento internazionale ha raggiunto livelli significativi. Ma 

l’arresto e il pestaggio della giovane Mahsa assumono tinte 

quasi grottesche, se si fa luce sul motivo alla base: secondo 

quanto comunicato dalla Polizia Morale (organismo politico incaricato della sicurezza pubblica), la giovane non avrebbe “indossato il suo hijab correttamente”, ed era stata “invitata” insieme ad altre donne a partecipare ad un breve “corso di rieducazione”. Se a queste dichiarazioni si aggiungono le indagini delle alte burocrazie circa la morte della giovane, ufficialmente deceduta per “arresto cardiaco”, la furiosa ipocrisia del regime salta subito all’occhio. Dunque è possibile, per il Governo e per gli amministratori della sicurezza pubblica, distorcere le documentazioni collettive, che si sviluppano nei “ponti” di comunicazione e solidarietà internazionale, ormai anche riguardo fenomeni di “minore” intensità sociopolitica.

Ma non è servito a niente, non è bastato a giustificare crudelmente fenomeni a dir poco significativi: le esecuzioni di prigionieri e attivisti dissidenti (1988), lo stoico suicidio rituale di Homa Darabi (1994), i brutali stupri ed esecuzioni di Zahra Kazemi (2003) e Taraneh Mousavi (2009), il controverso arresto e decesso di Zahra Bani Yaghoub (2007), l’omicidio in pubblica piazza di Neda Agha-Soltan (2009), nonché le recentissime uccisioni (con evidenti tracce di pestaggi e torture) di Hadis Najafi, Asra Panahi, Nika Shakarami, e tante altre tuttora. E chissà quanti altri giovani manifestanti dovranno soccombere sotto le bastonate, gli sputi, i calci, le torture e gli abusi insistenti della cosiddetta “Polizia Morale”, prima della riconciliazione.

Nonostante ciò, a mano a mano che le proteste si intensificano, cresce anche la risonanza mediatica. Una risonanza che risente di trasformazioni, schieramenti opposti, e spesso una comprensione non sufficiente. Queste donne hanno lottato per la propria espressività artistica, per la propria identità, ma soprattutto per la loro dignità e diritto ad essere umane. Prima di essere vittime sacrificali, un simbolo di ingiustizia e repressione, di sofferenza strumentalizzata, sono state combattenti, in costante resistenza e ricerca di un dialogo costruttivo. E sono state brutalmente massacrate per questo. Ma la loro fierezza combattiva non ha smesso di ispirare collettività di attivismo, diplomazia, sensibilizzazione.  

Affinché in futuro non vengano più uccise vittime innocenti, per video di informazione e attivismo sulle piattaforme social, per la propria genuina espressività artistica, o più semplicemente “per un capello fuori posto”, la mobilitazione è fondamentale. Ma questa mobilitazione deve accogliere e sostenere un’informazione oggettiva, accurata, comprensibile. Perché questo è il potere del giornalismo, documentare, approfondire, sensibilizzare ogni giorno

di Francesco Quirino


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