Officium


La regina Didone rimane sveglia la notte prima della partenza di Enea da Cartagine, inquieta ed incapace di lasciarsi andare al sonno. Senza pretesa, ho immaginato che qualcun altro fosse desto in quelle ore buie…


Le navi Teucre beccheggiavano appena sul placido mare, non lontane da quei lidi che sino a pochi giorni prima chiamavano amici ed ora non avevano più un nome preciso. Il rumore delle onde e lo scricchiolio del legno- la nenia notturna dei marinai e degli esuli- erano flebili eco dei pensieri di Ascanio, disteso su un giaciglio improvvisato sotto il cielo stellato. Attorno a lui gli altri Troiani, compreso suo padre, godevano di qualche ora di sonno prima della grande partenza che li avrebbe riconsegnati al mare.

Alla volta dell’Italia.

Da quando avevano lasciato Ilio, quella terra straniera aveva assunto per lui sembianze sempre differenti ed ora la immaginava come una seconda Cartagine: una città ancora da costruire, abitata da volti familiari come quelli lasciati indietro nella fuga da Troia o simili a chi abitava la reggia della regina Elissa.

“Perché l’Italia?”, avevano chiesto diverse volte gli uomini ad Enea e col tempo la mente di Ascanio aveva fatto proprio quell’interrogativo, un dubbio che alle volte, semplicemente, tornava. Perché l’Italia, così lontana, così ignota?

Così volevano gli dei, così doveva essere, rispondeva suo padre e tutti allora mormoravano quella parola che era stata come cucita al suo nome, alla sua persona: pius.

Ascanio si rigirò in cerca di una posizione più comoda sul legno della nave che sapeva di sale. Nella quiete delle ore più buie udì un rumore di passi cadenzati e sicuri della propria direzione, sebbene stanchi, che si muovevano verso la prora. Girando un poco il capo in quella direzione, socchiuse gli occhi e scrutò nell’oscurità rischiarata appena dalla luna e dalle stelle.

Enea osservava il mare aperto dando le spalle ai lidi cartaginesi, ritto come una sentinella. Una striscia di debole luce gli illuminava il fianco, come aspettandosi di trovarvi quella spada adornata dal fulvo diaspro, dono della regina, ma il balteo era vuoto. Anche il manto di porpora, degno di un re, era stato abbandonato.

All’apparenza non c’era più nulla in lui che suggerisse la loro permanenza in quella città: solo nuove ombre e segni sul volto, indizi quasi invisibili, riflessi di ciò che scuoteva il suo animo.

Ascanio aveva visto il sorriso che Cartagine e la sua regina avevano portato sul viso di suo padre, la sua dedizione nel far crescere la città come fosse stata la nuova partita del suo popolo. “Perché l’Italia?”, avrebbe voluto chiedergli nuovamente ora, come se quel momento solitario potesse portare una risposta nuova.

Enea si rianimò, gettando un ultimo sguardo all’orizzonte. Si mosse e cominciò a destare i suoi uomini più fidati, dando ordini a mezza voce per non svegliare gli altri: “Dobbiamo partire, prendere il mare prima che sorga il giorno”.

Quando giunse vicino a lui, suo padre non lo chiamò ed Ascanio continuò a fingere di dormire, deciso a ricordare Cartagine per come l’aveva ammirata dalle sue strade, non come una città straniera sempre più lontana.


di Iulia


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