Questione di etichette
Passiamo all’incirca tutta la vita a cercare di compiacere gli altri, di essere all’altezza. Ma all’altezza di cosa? Di standard e pregiudizi nati su una questione di etichette. Andiamo in giro con un cartellino sulla schiena invisibile ma di cui sentiamo costantemente il peso. Un nome che non ci appartiene ma destinato a segnarci a vita. Ci adeguiamo, lasciando che quel nome scelga al posto nostro, ma chi gestisce i fili dei burattini? Giochiamo a chi attacca per primo un nome agli altri, ci divertiamo a rendere scritta e fissa l’anima delle persone. Pretendiamo di saper leggere attraverso la pelle e le ossa, come se fossimo una specie di microscopio in grado di conoscere le persone.
Ma quanto sappiamo veramente di chi ci vive intorno intrecciando la sua storia alla nostra? Cosa sappiamo degli incubi che raggiungono gli altri la notte e molto probabilmente anche alla luce del sole? Cosa sappiamo noi delle aspirazioni, dei sogni nel cassetto chiusi così in profondità nei loro pensieri? Cosa sappiamo noi di quello che vedono gli occhi della gente, di quello che pensa la loro mente o di quello che percepiscono quando nessuno nota nulla?
Cerchiamo di classificare i problemi degli altri perché incapaci di riconoscere e affrontare i nostri. Scappiamo dai demoni che ci torturano la mente anche a costo di farci rincorrere e inghiottire vivi. Eppure pretendiamo di sapere cosa si cela dietro gli sguardi assenti della gente : così nascono le etichette. Brevi parole o aggettivi che affidiamo inconsciamente agli altri anche solo con un pensiero espresso a voce alta, segnando la permanenza di un’anima. Come se spettasse a noi giudicare a quali anime spetti l’inferno o il paradiso, in realtà siamo solo logorati dalla sensazione di impotenza. Eppure non riesco a trovare qualcosa di positivo in nessuna etichetta. Gli “atleti” devono essere sempre presentabili e andare male a scuola, essere i “fighetti” di turno che passano le serate a fare baldoria e con ogni sera un cocktail diverso in mano o sarebbero strani; i “secchioni” devono vivere passando le notti sui libri, senza la possibilità di prendere un brutto voto per una volta o deluderebbero le aspettative; i “protagonisti” si sentono quasi in dovere di far sentire la loro presenza. Poi ci sono gli “invisibili”: coloro che camminano per il corridoio evitando di incrociare gli sguardi delle persone, che hanno paura di far sentire le loro idee tanto da aver dimenticato anche il suono della loro voce. Temono di essere perseguitati dalla loro ombra e si dimenticano di occupare anche loro un posto in questo mondo. Io mi presento come un invisibile. Trasparente per tutta la vita, un contorno che non rende significativo il quadro, ma un albero che si confonde tra gli altri.
Eppure forse dovremmo capire che camminare controvento spesso da più soddisfazione, con la brezza tra i capelli e i brividi lungo il corpo. Non sempre bisogna seguire la direzione degli altri. Molto spesso basta anche solo una parola, uscire dalla piccola campana di vetro che ci protegge, per strapparci di dosso ogni parola che non ci appartiene e poter camminare tranquillamente alla luce del sole senza che le ombre ci sfiorino minimamente.
di Ilaria Ceva
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